Un cuore in gabbia

Non ci saremmo dovute andare in vacanza, quell’anno. Quell’anno, la casa in Salento che la mia amica affittava ogni anno era occupata, ma poi all’ultimo si è liberata; io, Sonia e Cristina, le mie migliori amiche, partivamo!!! Lui non ci sarebbe dovuto andare in vacanza, quell’anno, perché non c’erano i soldi; poi, sua madre, che i soldi li faceva uscire sempre, facendo la cresta sulla spesa, li ha trovati. Matteo da Palinuro è partito col suo gruppo di amici. 

Mai congiunzione astrale fu meno azzeccata e, se all’inizio fui al settimo celo, successivamente maledissi quella partenza. Già dall’incontro avrei dovuto capire che la storia non sarebbe potuta decollare, ma… giovane e incosciente, chi li vede certi segnali? 

Noi stavamo facendo il bagno in mare, loro giocavano a palla nella stessa acqua; mi è arrivata una pallonata sulla testa, tirata apposta per farmi girare e, in effetti, mi sono girata, per mandare a quel paese il cretino che mi aveva mirata; ma il mio sguardo da fulmini e saette si è scontrato col suo. Sorrideva, e non solo con gli occhi: mi stava sorridendo un bellissimo ragazzo, che però dava l’idea dell’imbranato. Probabilmente il mio sguardo non fu troppo convincente, perché lui venne comunque a scusarsi e si presentò con i suoi amici. Disse che a fulminarlo, oltre al mio sorriso, fu il mio di dietro, che a detta sua era fantastico! 

La vacanza, alla fine, la passammo insieme, tra una pizzata, due balli in discoteca, un falò, passeggiate in riva al mare… fu una bellissima vacanza, ricca di risate e divertimento. Qualche giorno prima della partenza, dopo un bacio fugace, Matteo si dichiarò con questa frase “Io a te ti sposo”; sì, disse proprio così! La mia risposta, dopo lo stupore, fu una grassa risata! Poverino, penso che ci rimase male; ma d’altronde, se pur innamorati, nessuno avrebbe scommesso una lira sulla nostra storia… 800 chilometri di distanza ci dividevano: Palinuro – Milano. Eravamo pendolari, attaccati ai fine settimana per vedersi, contrastati dai suoi genitori che dicevano “non ti mettere con la milanese, tutte zoccole sono”… Ma noi continuavamo a macinare chilometri su chilometri, pur di vederci. 

Matteo era di famiglia numerosa, cinque figli (tre sorelle e due maschi); lui era il cocco di mamma, il più piccolo, un piezz’e core per mammà ; e io, a quella donna il cuore l’ho spezzato, portandoglielo via, mentre per il padre, nonostante fossi una milanese mai accettata ero comunque una benedizione, perché gli levavo un figlio da sfamare e un sacco di problemi. I soldi non bastavano, Matteo non lavorava… la cosa continuò finché, dopo due anni da pendolari, sua sorella Maria gli trovò, tramite il marito, un posto in una grossa ditta dell’Emilia-Romagna. Faceva i turni Matteo, non gli piaceva quel lavoro, se ne lamentava sempre, soprattutto del freddo di notte. Arrivava a casa stanco ma contento, perché quando potevo partivo al mattino presto e andavo a trovarlo: arrivavo la sera prima, ci salutavamo, andava a lavorare e quando tornava alle 6 del mattino trovava me insonnolita ma che lo aspettava, gli si metteva accanto e lo scaldava. Eravamo così contenti! Quanti treni presi, ma quante emozioni. Desideravamo tanto vederci, e quando ci riuscivamo era una gioia del cuore e dei nostri corpi. Abbiamo sempre amato fare l’amore, e dopo l’amore ci addormentavamo in un incastro perfetto. Quante lettere scritte, quante telefonate, con i gettoni che non bastavano mai. 

La sua era una famiglia strana: la madre era un pezzo di pane, il padre un orco; un padre padrone, con scatti d’ ira improvvisa e spesso immotivata. I figli avevano ognuno il proprio carattere, ma comunque “difficili”, figli che negli anni avevano subito violenze psicologiche e frustate con cintura anche per cose futili, con la madre che restava zitta e il padre che, a detta sua, era solo “stressato” per il lavoro. Facevamo lo stesso lavoro io e suo padre, con una differenza: io ero una semplice infermiera, lui si definiva “paramedico”, cioè colui che ne sa più del medico, o quasi. La nostra storia dei pendolari del venerdì sera andò avanti per due anni, ma poiché sia sua sorella che Matteo avevano caratteri iracondi e bisticciavano furentemente quasi ogni giorno, capitò che una mattina lei, mentre lui era al lavoro, gli fece le valigie e gliele lanciò letteralmente dalla finestra! In mezzo a una strada non ci rimasero solo le valigie, ma anche Matteo. Mi chiamò, disperato, dicendomi che, non sapendo dove andare, e visto che con sua sorella non si poteva recuperare il rapporto, aveva deciso di ritornare a Gallipoli. Intervenne mio padre, che negli anni gli ha fatto da padre più del suo: è stato per lui il padre che gli è mancato, col quale poteva confidarsi, confrontarsi senza ripercussioni. Gli propose di venire a stare da noi, e che lo avrebbe aiutato a cercare un lavoro. E così fece, e trovò lavoro. 

Vivevamo in sei in un buco di casa, accampati; lui dormiva con me e le mie due sorelle. Condividere gli spazi non era facile, il nervosismo si faceva sentire, a volte prepotentemente. Lui non andava d’accordo con mia mamma, che definiva una persona inutile che delegava tutto agli altri; e in effetti, così era, mentre invece adorava mio padre. I musi erano sempre più lunghi, i litigi anche, lui si lamentava con me, i miei si lamentavano con me, senza mai parlarsi apertamente… io ero fidanzata, io ero figlia, mi trovavo in mezzo, fra l’incudine e il martello. Insomma, la situazione era insostenibile, e durò finché non trovammo una casa che sembrava fatta per noi: vecchiotta, da sistemare, ma con grandi camere, un giardino. Vedevamo dei grandi potenziali in quella casa… sì, dei potenziali che avrebbero innescato delle bombe! La casa poi, vista bene, spoglia dei mobili che coprivano le magagne, era un disastro, quasi completamente da rifare: pavimenti retrò da cambiare, impianto elettrico con fili a vista (erano prima nascosti dal mobilio), muro da innalzare per dividere le camere, che altrimenti sarebbero state comunicanti, un bagnetto piccolo e senza finestra… Vederla senza mobili ci ha fatto pensare: “che fossimo stati ubriachi la prima volta che siamo andati a vederla?” Ma chi ce l’ha fatto fare? La risposta era semplice! Di soldi ne avevamo veramente pochi, potevamo contare solo su noi stessi, non avendo i nostri genitori la possibilità di aiutarci, e così ci siamo “accontentati” di quella che secondo noi sarebbe potuta diventare il nostro nido per creare famiglia, il più in fretta possibile. 

E, ristrutturazione su ristrutturazione, assieme alle macerie che si accumulavano, il mutuo da pagare, i lavori da finire, si accumulava anche la rabbia, la sua: il suo nervosismo aumentava sempre di più, si accumulavano bestemmie su bestemmie… Già da quel momento mi sarei dovuta accorgere che, forse, qualche problemino c’era, che avevo accanto un uomo che anziché rassicurarmi creava ansie su ansie, che anziché cercare di risolvere aumentava i problemi, ed io, con gli occhi ancora innamorati e l’istinto della crocerossina, non vedevo… o non volevo vedere… 

Arrivò la data del matrimonio. I preparativi furono logoranti, con la sua famiglia che si arrogava il diritto di decidere su tutto (bomboniere comprese), perché al loro paese si fa così, e “non vorrai mai far decidere le cose a dei milanesi che si sa come sono, loro di certo le cose in grande non le fanno”… La sera prima del matrimonio fu un disastro, arrivammo all’altare tesi come corde di violino e con gli occhi gonfi dalle lacrime, ma col sorriso di circostanza. Riguardo le foto del matrimonio e mi accorgo che non eravamo felici, o per lo meno avremmo potuto esserlo, se solo le cose fossero andate diversamente. Ci siamo sposati al suo paese, per comodità; i miei parenti e amici si contavano sulle dita delle mani, i suoi erano molti di più, tra cui parenti che lui neanche si ricordava. Noi eravamo alloggiati in albergo, lui a casa dei suoi. La sera prima suo padre, anziché congedarsi dal figlio e augurargli il meglio, gli vomitò addosso tutto il rancore e odio per non aver mai accettato me e la mia famiglia, la gente di Milano. ”Te ne pentirai” diceva, “vedrai che finirai come un pezzente con accanto una zoccola”; e poiché qualche problemino ce l’aveva, prese il vestito da sposo di Matteo, lo calpestò e lo gettò sulle scale di casa. Ci fu una lite epocale, e quello che da lì a poche ore sarebbe diventato mio marito fu buttato fuori di casa! Suo padre aveva sempre dato segni di squilibrio: se una pietanza non era di suo gradimento, il piatto veniva buttato a terra e lui ci saltava su con i piedi oppure sputava nello stesso piatto, volavano cinturate per un nonnulla, era proprio un padre padrone… Sua madre rimaneva zitta, a subire e piangere di nascosto, e i figli erano traumatizzati. Ecco, mi viene da pensare che Matteo sia letteralmente scappato da quella famiglia, portandosi però dietro un fardello pesante, una personalità purtroppo compromessa, che ha poi riversato nella nostra famiglia. I primi anni di matrimonio, tutto sommato, passarono abbastanza tranquilli; ma, poiché lui ormai aveva preso a odiare la nostra casa, perché secondo lui non era degna di essere chiamata tale, prendeva ogni scusa per “sistemarla”, si vergognava di invitare la gente. Eppure, era una casa più che dignitosa; da sistemare c’era ben altro… Le liti aumentavano sempre di più, anche per motivi futili: il cibo “troppo caldo” perché appena tolto dal fuoco, “non trovo quel paio di scarpe da tennis” che erano sempre allo stesso posto ma lui non le vedeva, e così via. Un giorno, davanti ad una mia amica che era venuta a fare due chiacchiere, ha incominciato a lanciare scarpe per tutta la casa finché non sono dovuta andare io a trovargliele. Se io lavoravo il sabato, domenica o qualche festa, dovendosi occupare lui della bambina, mi faceva sentire in colpa… “Vai, vai a lavorare, tanto non fai un cazzo, intanto o’strunz non può riposarsi, perché c’è la bambina da accudire”. Io andavo al lavoro col magone e una stretta al cuore, con le urla di mia figlia che si sentivano finché non giravo l’angolo. Eppure, lei lo adorava, allora: facevano delle lunghe passeggiate in bici, giocavano… ero io con il mio lavoro il problema… 

Non sapevo però che problemi più grandi mi si sarebbero presentati. Mario, un infermiere di Ostuni, ha vinto il concorso ed è arrivato a lavorare da noi, nel mio reparto. Non gli avresti dato una lira: alto, dinoccolato, magro, tanto magro che sembrava ancora più alto, un giunco e pure bruttino, con quegli occhi un po’ bozzoluti; insomma, poteva passare inosservato. Era il mio collega, lo aveva affibbiato a me la caposala, e dovevo inserirlo io, in quanto neoassunto. Facevamo gli stessi turni, era la mia ombra. Mi ascoltava, Mario: ascoltava le mie lamentele, subiva le mie crisi di pianto, capiva che tutto mi girava al contrario nonostante io cercassi in tutti i modi di farlo girare per il verso giusto. Non mi stava solo a sentire, mi ASCOLTAVA. 

A casa l’inferno: la bambina piccola da seguire, con i suoi capricci e le sue esigenze, il suo desiderio di averci sempre con sé, i compiti, la spesa, il cucinare, la casa da pulire… la casa… Eccoci sempre allo stesso punto: la casa “maledetta” – perché un capro espiatorio devi pur trovarlo – necessitava secondo lui dell’ennesima sistemazione e, nonostante il mio parere contrario, partiva l’ennesima ristrutturazione… e sposta mobili, e butta giù muri, e imbianca, e polvere e calcinacci, il tutto ovviamente fatto nel mese di agosto, quando sono tutti chiusi, e così ti ritrovi con un bagno smantellato e l’impresa che si è data latitante ed è sparita con l’anticipo. Crisi di nervi e litigate e pianti, lui sempre più incazzoso, io sempre più disperata, non vedevo un inizio né una fine, i soldi mancavano, e alla fine ci dovevamo arrabattare noi a sistemare… E nervosismo e nervosismo all’ ennesima potenza: io ingoiavo, non rispondevo, cercavo invano di fargli capire che così le cose non andavano e dovevamo cercare di venirci incontro, spesso stavo zitta per non scatenare ire senza ritorno, ma poi, dovevo pure andare a lavorare… 

Il lavoro era la mia isola felice, la mia ancora di salvezza, la mia oasi di pace per qualche ora. C’era Mario, che mi consolava, mi abbracciava, mi diceva “Tu sei una brava ragazza, non ti meriti tutto questo, non puoi continuare a sentire le sue urla, le sue denigrazioni”, mi diceva di non preoccuparmi che c’era lui che mi consolava e su cui potevo contare. Non pensate male, lui era veramente una brava persona, o per lo meno era quello che vedevo io. Non è stata una storia di “sesso”, no, quello non c’entra nulla, forse era l’unica cosa che tra me e mio marito funzionava nonostante tutto, ma Mario c’era, per me, potevo appoggiarmi a lui, era un porto sicuro che trasmetteva tranquillità, mentre a casa chi ci voleva tornare? Per sentire le urla, perché lui era stanco, perché i lavori non erano mai finiti, se c’era un inghippo erano tragedie… Mario mi ha preso la testa e il cuore, mi sono innamorata dei suoi modi gentili e pacati di fare, mai arrogante, aveva sempre una buona parola con tutti… Viaggiavo a due metri da terra, sempre la testa fra le nuvole, distratta. Ci vedevamo qualche volta anche fuori dell’orario di lavoro, facevamo lunghe passeggiate, si parlava tanto, ci si capiva, mi diceva “Mariastella, tu sei una cosa bella”, non meriti tutto questo, io ti avrei fatta felice… Nella mia testa c’era il caos totale, nel mio cuore un grande dolore. 

Ad un certo punto, gli hanno concesso il trasferimento a Ostuni: Mario ritornava al paesello. La mia parentesi di felicità è durata due mesi… mi ha liquidata con un “Ti voglio tanto bene, ma il tuo posto è accanto a tua figlia e a tuo marito… c’est la vie!” Punto! Tabula rasa! Fine della storia! Matteo se n’è accorto, mi conosce bene in fondo, quando mi vede. Matteo, incentrato sempre su sé stesso, si è accorto che avevo la testa per aria e i pensieri altrove, e d’altronde la mia faccia diceva tutto, difficilmente riesco a camuffare. Ha incominciato a pressarmi, a farmi mille domande, a chiedermi perché ogni tanto non ero a casa, mi ha fatto un interrogatorio serrato, finché gli ho confessato che avevo perso la testa per un altro, che con lui stavo bene.

La mia vita è finita in quell’istante. Ha incominciato a martellarmi… la sua domanda non era “perché è successo?” No, la sua domanda, il suo chiodo fisso era “Quante volte l’avete fatto, in che posizione ti prendeva? dove lo facevate? Ti è piaciuto farlo con lui? Sono meglio io o è meglio lui?” E mi ripeteva queste cose all’ infinito, non capiva che il sesso non c’entrava niente; non era un tradimento di sesso, no, peggio: Mario mi aveva preso di testa, avevo trovato qualcuno con cui potevo parlare, qualcuno che mi ASCOLTAVA! Matteo mi perseguitava, urla su urla, mi gridava che ero una zoccola, che avevano ragione i suoi genitori, e via che mi ripeteva all’ infinito sempre le stesse domande. Non si fermava davanti a nulla, nemmeno davanti alla bambina, anche i vicini sentivano le sue urla: “Sei una troia, ti sei fatta scopare nei sottoscala? Anche al lavoro lo facevate?” E via così, ripartivano le solite domande, andava avanti anche tutta notte a torturarmi. Un giorno mi ha confessato che per risentirsi “uomo” ha accettato le avance di una collega, perché “mica solo tu puoi fare certe cose, in fondo sono un bell’uomo, sai quante potrei averne meglio di te, che sei una nana cessa che ti sei fatta scopare nei sottoscala! Io almeno le porto nei motel o mi invitano a casa.” 

Un giorno, esasperata, in piena crisi, non ce l’ho più fatta, l’ho supplicato: “Perdonami e ricominciamo, altrimenti è meglio se ci lasciamo”. La sua risposta è stata: “sei matta? Io te lo devo far pagare a vita, quello che mi hai fatto!” E così ha fatto. Ho tentato anche il suicidio, o perlomeno ho cercato di fare un gesto estremo per capire fin quanto lui tenesse ancora a me. Ho preso dei sonniferi, sono stata incosciente per tre giorni. Risultato… ho perso tre giorni di vita di mia figlia, e nulla è cambiato! Dal pronto soccorso dove mi hanno portata mi hanno dato l’indicazione a fare una visita psichiatrica. Lo psichiatra ci ha consigliato una terapia di coppia che lui non ha mai voluto fare: “ I cazzi miei non li racconto a nessuno” diceva. Ma intanto, sia in pronto soccorso sia tra le mura domestiche, lui urlava ai quattro venti quello che la zoccola di sua moglie aveva fatto, tutti dovevano sapere che ero una troia e dovevo pagare per quello! Me lo ripeteva sempre, allo sfinimento, ogni pretesto era buono per urlare e urlare. La cosa che mi faceva più male è che lo diceva anche davanti a mia figlia. Mia figlia all’età di cinque anni sapeva che sua madre era una troia, che non valevo nulla né come madre né come moglie. Per oltre vent’anni ho ingoiato tutto questo, probabilmente in preda ai sensi di colpa che mi hanno sempre accompagnato: HO FALLITO COME MADRE E COME MOGLIE, mi dicevo, ho distrutto un matrimonio e rovinato una famiglia. Apparentemente era una famiglia Mulino Bianco…chi non sapeva la verità vedeva una famiglia che sembrava felice, che viaggiava molto, che finalmente aveva un po’ di soldi da parte, che poteva permettersi degli agi… Non è tutto oro quello che luccica, non sempre dietro ad un sorriso c’è una persona felice! Ho tentato più volte di andarmene, gli ho proposto varie volte la terapia di coppia ma non c’è stato niente da fare. 

Io ho innescato la bomba, ma lui ha minato l’incolumità mentale mia e soprattutto di mia figlia. Quando ci si metteva era un martello pneumatico, riusciva a ripetere come una cantilena le stesse cose per ore intere, per esasperarmi, per vedere fino a che punto reggevo senza rispondergli; perché era lì che aspettava, per innescare liti furenti, e d’ altronde me l’aveva promesso, che mi avrebbe rovinato la vita! Potrei fare milioni di esempi… Una volta siamo state costrette a scappare di casa a piedi scalzi, perché lui, inferocito, ha incominciato a riempirmi di pugni e calci davanti a mia figlia, con lei – cucciola – che si è parata davanti a me per proteggermi: siamo scappate in macchina, e lui per rincorrerci ha tirato un pugno sul parabrezza e l’ha scheggiato. Una notte sono scappata di casa perché continuava ad urlare, e per farlo smettere sono uscita di casa in pigiama, lasciando mia figlia nel suo letto con le mani sulle orecchie per non sentire… 

Qualche anno prima di separarci definitivamente siamo andati dall’avvocato, perché io volevo intraprendere le pratiche di separazione. L’avvocato che ci ha seguiti, una donna, ci ha chiesto se avessimo margini di speranza, se volessimo intraprendere una terapia di coppia per tentare tutte le carte. 

Mio padre si ammalò, e lo dovemmo seguire nel suo calvario per un mese e mezzo, finché se ne andò. In quel frangente accantonai tutto, terapia di coppia, separazione: mi dedicai giorno e notte a mio padre, e mio marito mi fu molto vicino in quel periodo. Mi aiutò tanto con mio papà, e per questo lo ringrazierò per tutta la vita. Lui fece con mio padre quello che non ha mai fatto col suo: lo accudiva, passava le notti accanto a lui in ospedale, mi supportava moralmente. In quel momento avevo accanto un marito. La morte di mio padre mi lasciò la morte nel cuore. Era un uomo pieno di vita, e la sua morte prematura e fulminea mi fece vivere una vita in accelerazione: in quel periodo non potevo sprecare neanche un attimo della mia vita. Ma nemmeno questo dolore, che ci aveva momentaneamente riavvicinato, è servito… archiviata la parentesi tutto è ricominciato. 

Cosa mi ha fatto scappare da quest’uomo? Semplice: a tutti e due piaceva ballare. La mia fonte di vita! Ci eravamo iscritti ad un corso, e si andava in gruppo a ballare. All’inizio sembrava potesse servire per riavvicinarci in qualche modo, ma nemmeno questo è servito. Una sera, in discoteca, stavo aspettando a bordo pista che la mia amica finisse di ballare per poi ritornare dal gruppo al solito tavolino. Si è avvicinato un ragazzo che ogni tanto mi invitava a ballare e si stupiva del fatto che fossi ferma e non ballassi in quel momento. Ci siamo messi a chiacchierare del più e del meno, sulle scuole di ballo che stavamo frequentando, parlavamo degli insegnanti… niente di che, un pour parler in attesa della mia amica… Matteo mi ha vista, mi ha presa per un braccio strattonandomi in malo modo davanti a tutti in mezzo alla pista gridando: “Adesso balli con me, così finisci di fare la zoccola”! La mia espressione esterrefatta diceva tutto. No, non ci stavo più a farmi trattare così, e per la prima volta dopo vent’anni mi sono ribellata! Non stavo facendo nulla di male, se non scambiare due chiacchiere. Al ritorno in macchina, nonostante ci fosse la nostra amica, continuava ad insultarmi, e l’aria era tesa, tesissima! La mia amica cercava di calmarlo, prendendo le mie difese, ma lui sembrava autistico, continuava a ripetere le stesse cose, nulla è valso a farlo calmare. Arrivati a casa – per fortuna nostra figlia quella sera non c’era – mi ha letteralmente “sbattuta” sul letto e mi ha obbligato ad un rapporto sessuale che io non volevo. Mi ha usato violenza: “Adesso noi scopiamo e tu non mi puoi dire di no! Sei una troia, ti sei fatta scopare dal tuo collega perché non dovrei farlo io!” BASTA! Questo è stato il mio ultimo grido di dolore. Da quella sera io mi sono trasferita a dormire sul divano, mi sono chiusa in un mutismo totale. Ci ho passato sei mesi su quel divano, mentre lui mi trattava con disprezzo.

Ho avviato le pratiche di separazione, che lui ha cercato di ostacolare in ogni modo, e, visto che lui si sentiva la parte lesa, non ha mai voluto lasciare la nostra casa; si, proprio la casa che lui ha sempre odiato con tutte le sue forze. Davanti all’ avvocato chiedeva i danni morali per averlo cornificato, giurando però su sua madre di averlo fatto a sua volta per sette volte, per farmela pagare, e per sentirsi “uomo”. In quei sei mesi sul divano quanto ho pianto! Lui arrivava alla sera, mi buttava i cuscini e mi ripeteva “se ti sta bene è così, se no lì c’è la porta e te ne vai”… E io un giorno quella porta l’ho aperta e me ne sono andata. 

Rifarei quello che ho fatto? Non credo, col senno di poi avrei forse cercato di capire prima i segnali del malessere, avrei cercato forse di parlare di più e non di tacere per le conseguenze, chissà se sarebbe andata diversamente…. Mi dispiace per come sono andate le cose, mi dispiace soprattutto per mia figlia, che ha subito traumi e ha cicatrici profonde che si porterà per tutta la vita; mi dispiace che non posso costringerla a farsi dare una mano da uno psicoterapeuta, perché ormai è maggiorenne e non lo accetta (a suo tempo alle medie invece l’avevo portata). Credo che l’aiuterebbe a farle passare il senso di inadeguatezza e la sensazione di essere una persona inutile. D’altronde, dopo che un padre ti dice “non vali niente, sei un fallimento, è colpa tua se io e la mamma non siamo più insieme, perché hai aumentato il nostro nervosismo…” come può sentirsi una figlia? Mi spiace per lui, perché non capisce che ha dei grossi problemi irrisolti che si porta dietro dall’infanzia, e rifiuta di farsi curare; mi spiace, perché adesso si sente un uomo solo, e soltanto adesso, quando ha capito che non c’è più nulla da fare, è lui che mi propone una terapia di coppia (ma quale coppia???). Mi mostra foto di donne che conosce su Facebook e cerca la mia approvazione, dice che ha conosciuto una brava “donna di casa”. L’ha frequentata per un po’ ma non ha funzionato… finché c’ era questa ragazza in circolazione io non esistevo più, ma adesso dice che gli manco, che gli manca il fare l’amore con me, gli manca quello che facevo per lui, i pranzetti, la casa pulita; insomma, gli manca una domestica, non l’essenza di me. 

Dopo la separazione ho vissuto in una casetta minuscola che mi ha prestato una mia cara amica, dove mia figlia non è mai voluta venire per non perdere tutte le sue comodità. Lui ha cercato in tutti i modi di riportare a casa la sua “donna”, come dice lui; dice che gli mancano i miei pranzetti, il fare l’amore con me, gli manca la casa pulita. Ai miei rifiuti di vederci sono seguiti messaggi (che conservo per non dimenticare) o telefonate con insulti irripetibili. Ora ho affittato una casa nuova, ho creato il mio nido, il nido per me e mia figlia; o almeno così speravo, ma nonostante adesso lei abbia tutte le comodità, in questa casa non ci è mai voluta venire. Dice che questa non è casa sua, la sua casa è quella dov’è è nata e dove ha i suoi due gatti e tutte le sue cose. Intanto rimane con lui, litigando in continuazione, o scappa dal fidanzato. Un pugno allo stomaco! Io sono seguita da una psicologa, stiamo scavando, lei sta cercando di togliermi di dosso il senso di colpa che mi porto dentro, il senso di fallimento e il fatto che mi dispiaccia per un uomo che mi ha fatto violenza fisica e verbale per più di vent’anni. Stanno finalmente passando gli attacchi di panico nel cuore della notte, o i pianti senza motivo. La psicologa ha detto che devo pensare a me stessa, adesso, senza più dare agli altri, che ho già dato abbastanza a quell’uomo. Ha detto di accettare le richieste del mio ex marito di vedermi solo se non mi creano problemi. Non ho altre storie, non ne ho volute dopo la separazione; forse non sono pronta, per il momento sto cercando di ritrovare me stessa e la Mariastella di adesso mi piace molto di più. Sono felice nella mia nuova casetta, mi piace molto, l’ho dipinta con un colore tenue, io lo chiamo color valeriana. C’è calma a casa mia, non ci sono più le urla, è un silenzio buono. Mi sento in colpa anche per questo, per questa mia ritrovata serenità…magari mi ci devo solo abituare.