Sono convinto che mia moglie lassù vuole la nostra felicità

Sono nato negli anni Sessanta, di segno zodiacale sono un gemelli, e mi piace rappresentarmi come diceva Fernando Pessoa, famoso poeta portoghese: “Non sono nulla, non sarò mai nulla, ma ho in me tutti i sogni del mondo”. Ecco, mi considero una persona semplice ed onesta.

Ho avuto una infanzia molto serena, in una classica famiglia italiana: in casa eravamo in 8, i miei genitori, un fratello più grande, io, due sorelle più piccole e i due nonni paterni.

Mia madre era casalinga e mio padre ferroviere. All’inizio il lavoro di mio padre ci ha fatto cambiare spesso casa, dal Veneto all’Emilia, finché ci siamo trasferiti definitivamente in un quartiere popolare, dove a mio padre era stata assegnata una casa aziendale.

Diciamo che è dalla fine dei nostri traslochi che i miei ricordi si fanno più vivi e presenti, quasi quotidianamente. Forse prima ero troppo piccino per ricordare. Ricordo molto bene, invece, i parenti, tra cui i nonni materni che avevano un’azienda agricola in provincia, luogo mitico e ancora presente nell’immaginario dei cugini e parenti tutti. Ci passavamo molto tempo tutti assieme, a mietere il grano e a vendemmiare. Lavorare e vivere all’aria aperta è sempre stato il mio sogno felice. Anche uno degli zii paterni aveva dei terreni in campagna, sul confine tra due province, mentre l’altro aveva un mulino in un borgo, ora diventato molto turistico e caratteristico della zona.

Ero un bambino sereno, ma anche vivace; ogni tanto da mio padre partiva una sberla, e allora scappavo nelle braccia di mamma per farmi coccolare. Credo di averle meritate tutte, a partire da quella volta che sono uscito dall’asilo, girovagando per il quartiere e facendo impazzire di paura le suore, che non riuscivano a trovarmi.

Non mi sono mai piaciuti gli ambienti chiusi, come ad esempio la scuola, dove cercavo di dare il massimo, ma dove non sono mai riuscito molto bene. Dopo le scuole medie ho frequentato una scuola professionale per elettricisti e riparatori radio TV, una professione che mi piaceva; ma poi, conseguito il diploma, non mi sono impegnato nel trovare un laboratorio che mi assumesse.

Nel frattempo, ho fatto di tutto, installatore di tende da sole e interne, operaio, commesso, verniciatore, finché sono partito per il servizio militare, che è stato per me lo spartiacque tra l’infanzia e l’essere adulto.

Avrei dovuto essere un paracadutista, ma, purtroppo, al momento della partenza ero ricoverato in ospedale per dei mal di testa, e quindi mi hanno rinviato la leva di un anno, mandandomi poi in Fanteria. Mi viene da sorridere ora ricordando quei momenti e le marce al canto: “oltre la morte la Fanteria d’arresto”. Mi è dispiaciuto non essere riuscito ad andare nei paracadutisti, sarebbe stato sicuramente più interessante della Fanteria.

Per quanto riguarda le ragazze, diciamo che non sono mai stato un dongiovanni: ho un carattere molto timido e introverso, e quindi facevo fatica nell’approccio. L’unica volta che l’ho fatto è stato con quella che poi è diventata mia moglie. Forse era destino, forse, non lo so; ricordo solo che mi trovavo sul lago con un amico e attraversando la strada ho incrociato lo sguardo con una ragazza bellissima. Lei mi ha sorriso, io mi sono girato e lì, in mezzo alla strada, l’ho bloccata invitandola a bere qualcosa. Una situazione unica, che non si sarebbe mai più ripetuta, e a pensarci mi sembra ancora adesso impossibile. Mia moglie era con una sua amica e io anche ero con un amico; fatto sta che dopo qualche anno io ho sposato lei e il mio amico la sua amica. Fu davvero un incontro fortunato; e chi l’avrebbe mai detto che dentro di me avessi il coraggio per fare un tale approccio?

Fatto sta che ci siamo frequentati ed io mi sono subito innamorato: era una donna semplice e molto sensibile, lavorava come operaia e la famiglia aveva una azienda agricola.

Il fidanzamento non è stato semplice, perché io nel frattempo avevo vinto un concorso per entrare nella Polizia di Stato, e mi avevano mandato per un anno a fare il corso. Finito il corso sono stato assegnato ad un reparto di Polizia Stradale.

Era una situazione lavorativa complicata: mi sono trovato immerso in una vita dove il mio lavoro si svolgeva prevalentemente sulla strada, a fare contravvenzioni, rilevare incidenti, aiutare automobilisti in difficoltà; ma c’erano anche cose non attinenti alla strada, tra cui furti, rapine, liti in famiglia, ecc. E’ stato in quel momento che mi sono accorto che sulla strada passava di tutto. Storie belle e brutte, alcune molto brutte. Ricordo personaggi famosi, con i quali ho fatto amicizia e che mi avevano regalato una foto con l’autografo o l’invito ad uno spettacolo, ma anche grosse tragedie, come incidenti mortali con bambini coinvolti e corpi maciullati. Situazioni che facevo fatica a gestire. Al corso ti davano le nozioni di diritto, ma non quelle psicologiche, su come gestire genitori disperati che vedevano il proprio figlio dilaniato sotto un camion.

Io, finito il mio turno me ne tornavo nella mia semplice casa, nella mia semplice vita, tra le braccia della mia fidanzata, che mi accoglieva sempre in modi dolcissimi facendomi dimenticare le bruttezze della vita.

Con lei mi trovavo benissimo, e un giorno abbiamo deciso di sposarci. Gliel’ho chiesto una sera, mentre eravamo sul divano di casa sua a guardare la TV; non mi ricordo esattamente come, ma quello doveva essere la normale conseguenza di una relazione così bella. È stato in quel momento che mi ha detto del suo problema di salute, e del fatto che molto probabilmente non avrebbe potuto avere figli. Rimasi subito spiazzato, ma poi ricordo di aver detto: “Bene, se non rimani incinta lo adotteremo”. 

Abbiamo fissato la data del matrimonio e abbiamo cominciato tutta la parte degli inviti, bomboniere, ristorante ecc. Ci siamo sposati; era una giornata di un calore indescrivibile, tanto che durante la cena era più quello che si beveva che quello che si mangiava. Ricordo che è stata avanzata molta roba e che l’unico piatto molto gradito è stato il gelato con la macedonia; ma comunque è stata una festa bellissima, con gli amici, i parenti, i nostri genitori, tutti assieme a festeggiare quel momento magico.

Il giorno dopo, mio padre ci ha accompagnato in aeroporto, dove con un volo saremmo andati in viaggio di nozze in un’isola, me lo ricordo ancora adesso: che momenti bellissimi, indescrivibili, in un pezzo di paradiso. Passavamo le giornate a fare nulla, in piscina o in mare, a fare un giro in gommone o guardare sott’acqua con la maschera, e poi ridere e scherzare. Avevamo anche fatto amicizia con delle altre coppie, anch’esse in viaggio di nozze.

Ma siccome tutte le cose belle finiscono in fretta, passate le due settimane di luna di miele siamo tornati alla nostra routine quotidiana, nella nostra casa, che avevamo nel frattempo sistemato. L’abitazione era di proprietà di mia moglie, ma io la sentivo anche mia, avendo dato il mio contributo nel sistemare il giardino e gli interni: avevo contribuito anche alla sistemazione degli impianti elettrici, l’impianto TV e tanto altro.

E così abbiamo cominciato la nostra vita da sposati: io ho ricominciato il mio lavoro, e anche mia moglie si è trovata qualcosa da fare. Non è che avessimo bisogno di soldi: la famiglia di lei ci dava frutta, verdura, carne, latte, non ci faceva mancare nulla, come se fossimo un reggimento, tanto che spesso dividevo tutto quel ben di Dio con la mia famiglia.

La vita continuava così in modo semplice, ma il mio lavoro era complesso da gestire e cominciavo ad avere problemi di salute. Il medico, dopo tanti esami, disse che non avevo nulla, e che forse quei disturbi digestivi erano da ricondurre allo stress nel lavoro, nella gestione di quelle tragedie, che io interiorizzavo come fossero mie. Decisi quindi di chiedere di essere spostato in ufficio, ma non fu possibile; allora chiesi di cambiare sede o città. Infatti, dopo qualche anno mi trasferirono, anche se purtroppo sempre in strada, assicurandomi che mi avrebbero messo in ufficio dopo qualche anno. Era come una specie di gavetta da fare, e alla fine accettai.

Nel frattempo, figli non ne arrivavano, e quindi con mia moglie abbiamo deciso di presentare domanda di adozione nazionale e internazionale. Sono iniziati i colloqui per l’idoneità, fino alla positiva conclusione e alla successiva domanda di adozione all’estero, in Romania, Giordania e Brasile. Per quanto riguarda la domanda di adozione nazionale siamo stati convocati e ci è stata proposta l’adozione di una bimba. Abbiamo accettato, ma il Giudice, quando ha saputo che avevamo fatto anche la domanda di adozione in Sudamerica, ci ha consigliato di seguire quel canale, che è molto più rapido e sicuro, aggiungendo anche che la bimba si trovava in rischio giuridico, e quindi vi era possibilità che la mamma facesse ricorso alla sentenza, e che quindi la bimba ritornasse giustamente nella famiglia biologica. Allora abbiamo accettato, senza discutere, e abbiamo proseguito con l’adozione internazionale.

Ci è stata proposta l’adozione di una bambina; abbiamo accettato, con immensa gioia di tutti, e abbiamo iniziato a preparare la documentazione, tante carte (perfino un certificato del parroco per attestare che siamo brave persone). Poi tutto doveva essere tradotto in lingua locale e legalizzato in Prefettura e al Consolato. E bolli e timbri, sembrava che non finissero mai.

Abbiamo cominciato anche a preparare la cameretta: mia moglie aveva acquistato una culla in vimini e la fodera, e poi abbiamo cominciato a fantasticare sul nome, su come sarebbe stata fisicamente la bambina, e su altre cento cose.

Finalmente è arrivato il giorno della partenza. Andare là, per noi che eravamo andati al massimo in Europa, sembrava una cosa immensa, ma credo che la gioia ci abbia fatto un po’ dimenticare la pazzia di quella avventura. Avevamo fatto un biglietto aperto di 3 mesi, perché sapevamo quando saremmo partiti, ma non quando saremmo tornati. Durante la permanenza saremmo stati ospiti a casa di una coppia, il fratello e la cognata dell’avvocato che ci avrebbe seguito. Appena arrivati abbiamo sbrigato le pratiche burocratiche di arrivo, dopodiché siamo andati a prendere la bambina, che si trovava presso una balia essendo stata abbandonata in ospedale. Ricordo ancora adesso come era vestita: aveva un vestitino di pizzo, con una gonnellina e una canottiera e una enorme fascia in testa con un immenso fiocco. Bellissima! Ci siamo subito innamorati di quello splendore. Abbiamo iniziato così il nostro periodo di affidamento preadottivo, tra biberon e pannolini, mentre la Polizia e gli assistenti sociali venivano a trovarci per controllarci. Dopo circa 40 giorni venne fatto il processo, dal quale scaturì una sentenza che divenne esecutiva passato il periodo per l’eventuale ricorso; quindi potemmo cominciare a fare i documenti per il ritorno nel nostro paese.

Tornati a casa abbiamo trovato il quartiere in festa. È stata una grande sorpresa vedere tutta quella gente ad aspettarci e tanti sorrisi e tanti abbracci e gioia. Abbiamo iniziato quindi la nostra vita bellissima a tre: io lavoravo e poi scappavo a casa come se fosse il mio salvagente, la mia isola felice. Mia moglie trattava nostra figlia come se fosse la regina, quando doveva fare il riposino la metteva nella culla in camera con le tapparelle abbassate e un leggero filo di musica classica, in casa non si sentiva ronzare una mosca e si respirava un’aria di serenità e bellezza.

La bambina cresceva amata da tutti, forse un po’ viziata, soprattutto dai nonni e dalle zie che stravedevano per l’unica nipote.

Nel frattempo, ho proposto a mia moglie una seconda adozione. Io ho sempre avuto il mito della famiglia numerosa e mi sarebbe piaciuto avere un secondo figlio. All’inizio mia moglie aveva rifiutato, pensando ai suoi problemi di salute ma anche all’impegno doppio sotto tutti i punti di vista. Io pensai che forse aveva ragione, e accettai la sua decisione.

La vita continuò serena e tranquilla: io ero riuscito perfino a farmi trasferire in ufficio, e con una vita professionale più tranquilla stavo meglio anche di salute. Mia moglie invece aveva dei continui alti e bassi, tant’è che i medici le consigliarono di mettersi in lista di attesa per il trapianto del fegato. La situazione italiana dei trapianti è purtroppo molto complicata: gli organi sono pochi, e quindi sottopongono a trapianto solo le persone in situazioni molto gravi. Da quel punto di vista mia moglie stava troppo bene, e finché la situazione fosse rimasta quella non l’avrebbero mai sottoposta a trapianto. Come ci spiegò il medico, mettersi in lista di attesa del trapianto significa anche sottoporsi a controlli periodici, e quindi mantenere un contatto con la situazione del proprio corpo e dei trapianti; insomma, ci avrebbe aiutato a trovare un equilibrio e un maggiore contatto con la realtà.

Abbiamo quindi deciso di farlo, e dopo tutti gli esami di routine e un ricovero all’ospedale di circa 10 giorni mia moglie venne inserita nella lista d’attesa dei pazienti in attesa di un trapianto di fegato.

In quel periodo abbiamo deciso anche per un ricovero in un ospedale all’estero. Volevamo sentire per così dire una seconda campana; e anche là la diagnosi finale era stata quella di trapianto del fegato. La differenza era che là avremmo dovuto pagare l’intera operazione, poiché il protocollo d’intesa con il nostro paese non ammetteva rimborsi di operazioni svolte ordinariamente qui.

Alla fine abbiamo accettato questa decisione e abbiamo continuato la nostra tranquilla vita a tre: lavoro-casa, casa-lavoro, esami medici, e così via. In un momento di tranquillità sono tornato di nuovo alla carica con la seconda adozione; sì, può essere vista come una pazzia, e forse lo è, ma mia moglie accettò. Abbiamo ricominciato quindi con le scartoffie; questa volta abbiamo fatto solo domanda di adozione internazionale, nel paese dove avevamo toccato con mano la situazione dei bambini e dove avevamo lasciato anche il nostro cuore.

Ci venne concessa l’autorizzazione, e abbiamo mandato tutti gli incartamenti, perfino la solita dichiarazione del prete che siamo una coppia brava e buona. 

Ci venne affidato un bambino, e anche in questo caso decidemmo di mantenere il suo nome alla nascita. Preparammo subito le carte per partire, il biglietto dell’aereo aperto, il visto di adozione presso l’ambasciata, poi tutti i documenti che, come dicevo, devono essere tradotti e legalizzati prima in Prefettura e poi dall’ambasciata, che deve riconoscere quella firma come vera e reale. E si paga tutto; viene da pensare “ma è per una adozione”… e intanto si paga, si paga!

Naturalmente venne anche nostra figlia, che avendo la doppia cittadinanza ha il doppio passaporto, e quindi non necessitava di visto.

Arrivò il giorno della partenza, e noi eravamo sempre un po’ spaventati, ma molto felici. Siamo arrivati sempre nella stessa città, sempre nella stessa casa e con la stessa coppia che ci ospita; solo che quella volta c’era un piccolo problema: il Giudice Minorile del Tribunale dei Minori era assente, nel senso che non era stato nominato, e ne veniva uno dalla capitale ogni tanto a fare qualche firma. Questa situazione ci complicherò molto le cose, portando il nostro soggiorno dai 40 giorni fatti la prima volta ai 90 giorni necessari per concludere la seconda adozione.

Comunque appena arrivati siamo andati a prenderlo. Il bimbo era affidato ad una balia, come era stata nostra figlia; lui era un po’ più grande di qualche mese, ma altrettanto bellissimo. L’abbiamo portato a casa e abbiamo cominciamo la nostra vita a quattro.

Io mi trovavo benissimo in quel paese: avevo anche imparato la lingua, e mi piaceva passeggiare per il quartiere con mia figlia; mia moglie stava in casa con il piccolo, uscendo solamente nei momenti meno caldi. I giorni passavano lenti, tra un gelato e una chiacchiera con i vicini, tra una gita al lago a vedere gli animali e un’altra alle piantagioni di frutta tropicale. Le carte purtroppo non andavano mai avanti, e il Giudice che veniva leggeva il nostro fascicolo e poi lo metteva da parte per il prossimo collega, come se nessuno volesse assumersi la responsabilità di quella firma.

Le settimane passavano, e allora decisi di scrivere una lettera alla nostra ambasciata. Ero deciso a tutto per sbloccare quella situazione, anche far venire i giornalisti; nel frattempo, io avevo finito le ferie, e quindi non potevo più rimanere là, neanche con quei dieci giorni di dissenteria che non mi hanno consentito di volare. Decisi pertanto di tornare a casa con mia figlia, e spostare nel frattempo mia moglie col piccolo nella capitale, presso una congregazione di missionari dove nel frattempo avevamo conosciuto un prete.

In aeroporto, al momento della partenza, la Polizia non autorizzò la partenza di mia figlia con me, perché, mancando la mamma, non c’era la sua autorizzazione all’espatrio, e noi stupidamente non ci avevamo pensato. Perciò non siamo partiti, e il giorno dopo siamo andati da un notaio, dove mia moglie ha firmato l’autorizzazione per la partenza di nostra figlia con il padre. Siamo alla fine a tornare a casa, e quel volo me lo ricordo ancora adesso: non c’erano sorrisi, ma lacrime. La situazione era veramente disperata: io e mia figlia eravamo a casa, mentre mia moglie e il piccolo erano a migliaia di km di distanza, e allora non c’era Whatsapp, ma solo il telefono, o al massimo le email. Delle volte eravamo presi dallo sconforto, tanto da pensare di rinunciare all’adozione, oppure di mollare il lavoro e trasferirmi là fino alla soluzione del problema. La scelta non era facile e la distanza non aiutava, mia moglie con i suoi problemi di salute soffriva, e anch’io con lei.

Ma un giorno mia moglie mi chiamò, tutta felice: il Giudice aveva firmato! Allora lasciai mia figlia dai nonni materni e presi in fretta e furia un volo per andare a finire i documenti necessari. Arrivato là mi sono ricongiunto con mia moglie e mio figlio, e siamo venuti via dai missionari, ritornando nella casa che ci ospitava in precedenza. Abbiamo finalmente concluso tutto il necessario per la partenza, certificati, passaporti, visti ecc. Finalmente si partiva! Mi sembrava un sogno… Mia moglie era stanca, eravamo tutti stanchi ma felici!

Siamo arrivati a casa, ed è stata una vera festa, con la famiglia, con i nostri amici che ci aspettavano in giardino con le bottiglie per brindare al piccolo e a questa storia assurda che era terminata.

Siamo rientrati immediatamente in noi, nella nostra routine: avevamo proprio bisogno della nostra tranquillità, della nostra semplicità. Ogni domenica ci si riuniva in campagna nella casa di famiglia di mia moglie, in una tavola lunghissima, dato che lei aveva una grande famiglia con tre zii che non erano sposati, di cui una Down: ogni volta che si andava da loro questa zia ci abbracciava, stringendoci forte, e non si staccava finché la cognata gli gridava: “dai, smettila, mollalo!”. E poi a tavola ci gustavamo il piatto della domenica, tortellini in brodo e carne lessa col cotechino e vino, di quello buono.

Eravamo in quattro in casa; almeno, quella grande casa cominciava a riempirsi. In giardino c’era anche un cane, un pastore tedesco che avevo preso al canile dopo che mi era morto il primo cane. Era la vita che avevo sempre sognato: io, mia moglie e nostri due figli, e anche il cane, che stava giù in giardino anche se delle volte saliva in casa ad annusarci e a ricevere qualche coccola.

Mia moglie sembrava avere trovato un certo equilibrio con i suoi problemi di salute, anche se delle volte erano necessari dei brevi ricoveri e lei soffriva a lasciare la casa e i figli anche per pochi giorni, ma era necessario per stare meglio.

Nel frattempo, sono riuscito a cambiare ufficio e mi sono fatto trasferire in un reparto meno complicato, la Sala Operativa. Mi sembrava di rinascere: basta tragedie o incazzature, anzi lì erano tutti felici.

Un giorno, mentre ero al lavoro, sono stato chiamato dai colleghi, che mi avvisarono che mio padre aveva avuto un incidente stradale: mentre si trovava in centro, a bordo del proprio motorino, era finito sotto le ruote di un camion, morendo sul colpo. Avevo rivisto quell’incidente decine di volte, mai avrei pensato di rimanerne coinvolto. Ora, non ricordo esattamente cosa ho fatto, ricordo solo che ero in ospedale con mia mamma e mia sorella e ci stavano mostrando il corpo di mio padre, e la disperazione ci ha preso.

Penso che una persona prima o dopo deve pagare il proprio debito di lacrime alla vita, e io ne avevo molte da versare, per la vita felice che avevo fatto fino ad allora.

L’incidente di mio padre ci portò ad iniziare una battaglia legale nei confronti del camionista, ma siccome lui non aveva visto nulla, mio padre era morto, e testimoni non esistevano. Il processo prese fin da subito una brutta piega, portando all’assoluzione del camionista sia nel rito penale che civile, con una grande disperazione di tutta la famiglia. Certo, il processo non ci avrebbe restituito mio padre; ma sapere che il responsabile sarebbe stato condannato avrebbe restituito una parte di legalità a questa vita.

La perdita violenta di mio padre mi mandò in crisi, anche professionalmente. Io avevo sempre creduto in quello che facevo, ma soprattutto nell’onestà e nella legalità: vedere mio padre in quelle condizioni e il Giudice che proclama che nessuno è da ritenersi responsabile mi aveva fatto cadere in uno stato di apatia e disinteresse generale.

Passato circa un anno da quella immensa tragedia, mia moglie cominciò ad accusare dei dolori alla schiena. Si pensava a qualche problema legato alla sua situazione, e quindi andammo subito all’ospedale a fare degli esami. All’ospedale eravamo purtroppo ormai di casa: la prima cosa che gli fecero fu una ecografia, nell’esame il medico vide delle cisti e consigliò l’asportazione o comunque degli esami più approfonditi, così decidemmo di tornare a casa e proseguire con gli accertamenti.

Nel frattempo, l’ospedale fece una diagnosi e decise per l’immediata asportazione in sede chirurgica. Dall’inizio dei dolori alla schiena al ricovero per l’esportazione di quelle cisti saranno passati più o meno due mesi. Ricoverata in reparto, è stata subito operata. Ricordo ancora adesso il medico chirurgo, che dopo l’operazione volle parlarmi dicendomi che l’intervento a mia moglie era stato inutile, poiché ormai non c’era più nulla da fare. Gli organi interni erano già tutti in metastasi e troppo compromessi anche per consigliare una cura farmacologica. Ricordo ancora adesso la disperazione, la telefonata a sua sorella e poi tante lacrime.

Non c’era più nulla da fare: si trattava di un tumore fulminante, aveva detto il chirurgo; ma in quei momenti sei talmente disperato che faresti qualsiasi cosa. Non poteva andare a finire così. Mia moglie era una santa, non beveva, non fumava, mangiava in modo sano ed equilibrato: possibile che dovesse venire un tumore proprio a lei?

Decisi di non dire nulla a mia moglie, e dopo qualche giorno lei venne dimessa con una cura farmacologica da seguire. A casa riprese un po’ di forza, attorniata dall’amore della sua famiglia, ma la situazione era grave. Il medico aveva detto che si trattava di settimane, forse mesi. Io non sapevo cosa fare, ero disperato e mi sembrava di impazzire. Lei era sempre calma, con una parola dolce per tutti, mi diceva: “stai calmo, vedrai, si sistemerà tutto”.

Nel frattempo trovai un fisioterapista che veniva a casa a farle dei massaggi alla schiena e un’infermiera che veniva a farle delle flebo. In casa era un via vai di amici che venivano a trovarla: non sapeva niente nessuno, tutti pensavano ai normali problemi di salute, anche mia moglie credeva in questo. Si andava avanti giorno per giorno, sperando in un miracolo. Mi ricordo che parlavo spesso con Dio dicendogli: “… Questa donna è buona, ha adottato due bambini, ha sempre fatto una vita tutta casa e chiesa, mai una parola o un gesto fuori posto, potresti cambiare la mia vita con la sua: penso che meriti più lei di me di vivere, per il rispetto e l’amore che ti ha sempre portato”.

Ma niente, purtroppo non c’è stato nulla da fare. Ad agosto ebbe un tracollo: è stata ricoverata, è andata in coma e pochi giorni dopo è mancata, così giovane. Le ultime parole che ha detto sono state: “Mi raccomando i miei figli”. Erano ancora piccoli, e nulla è più stato come prima: prima mio padre, e poi mia moglie. Mi chiedevo se ci sarebbe stata una fine a tutto questo dolore.

Molte volte ho pensato che avrei potuto far finire tutto quel dolore, facendola finita con la mia vita, ma sarebbe stato un gesto egoista. E poi guardavo i miei figli smarriti, i nostri figli, e la malsana idea mi passava subito.

Il Dirigente del mio ufficio mi disse di prendermi tutto il tempo che volevo, di non aver fretta a rientrare in ufficio, di pensare a me e alla mia famiglia; ma a casa mi sembrava d’impazzire, avevo bisogno di muovermi, di pensare, di occupare la mente con altri pensieri più leggeri. Così, dopo qualche settimana sono rientrato a lavorare, e tutto ha preso una parvenza di equilibrio. Con i figli mi davano una mano le sorelle di mia moglie, che abitavano a poca distanza: potevano prenderli e portarli all’asilo o a scuola e dare loro quell’assistenza che era necessaria.

Ma io ero diventato una persona inquieta, non riuscivo a ritrovare in me stesso quell’equilibrio, quella serenità che per anni avevo respirato tutti i giorni e che in pochi giorni mi era stata tolta.

Decisi che avrei dovuto cambiare vita, andarmene da quel posto di dolore, vedere volti nuovi; tutto mi riportava con la mente a quei momenti dolorosi, la nostra casa, quel letto, quel divano, tutto aveva un ricordo di dolore collegato. Non riuscivo più ad avere un bel ricordo, tutto mi ricordava malattia e morte.

Andai quindi a trovare un missionario che conoscevo molto bene e gli chiesi se poteva mandarmi nella sua missione, con i miei figli naturalmente, in una scuola o in un seminario, anche a pulire i gabinetti: non aveva importanza, bastava avere un tetto e un lavoro e poter far studiare i miei figli. Il pensiero di quel paese allora era l’unica cosa in cui ritrovavo serenità, il ricordo dei momenti passati, a coccolarci, noi e i nostri figli. Forse ero anche ingenuo, ma volevo ritrovare quei momenti a tutti i costi. Il prete, invece di mandarmi là, mi fece conoscere una signora, che avrebbe potuto aiutarmi con i bambini.

Abbiamo iniziato così una relazione, e lei piano piano entrò nella nostra vita. Se ora penso a quei momenti non ho dei ricordi lucidi, e se guardo le cose con il calendario in mano penso anche di essere stato molto ingenuo e affrettato a pensare che una donna avrebbe cambiato la situazione. Fatto sta che ci siamo messi assieme e lei è venuta ad abitare da noi. Cercavo di mantenere un certo equilibrio con le zie, che erano anche un po invadenti: ad esempio, entravano in casa per fare la lavatrice, cambiare le tende e così via, mentre noi volevamo un po’ di privacy, tentavamo di consolidare una relazione. 

E’ difficile mantenere un equilibrio quando una cosa è continuamente strattonata da un lato o dall’altro. La situazione era anche destabilizzata dai ragazzi, che quando avevano un problema andavano dalle zie a sfogarsi, molte volte ingigantendo quello che era successo per farsi compatire e coccolare.

Ma, con un colpo al cerchio e uno alla botte, le cose andavano avanti piano piano: dopo poco tempo è nata la mia 3 figlia, e abbiamo deciso di andare nel paese d’origine della madre per qualche mese. L’idea era meravigliosa. Per qualche mese mi sono messo in aspettativa, e mentre la mia compagna e i figli più piccoli sono andati là, io e la più grande abbiamo aspettato che lei finisse gli esami di scuola e poi li abbiamo raggiunti.

Abbiamo noleggiato una macchina, e con quella abbiamo fatto dei giri enormi, dal nord, dove sono nati i ragazzi, al sud dove abitava la famiglia della mia compagna; e poi ad est, a ovest, e alla fine la macchina noleggiata aveva 11mila km in più; incredibile. Che bella vacanza. Io ero felicissimo, e anche i miei figli avevano rivisto dove erano nati: seppure fossero piccoli per capire interamente, io lo ritenevo un piccolo mattone nella loro storia, al quale potevano seguirne altri più avanti.

Terminata la vacanza siamo tornati a casa: la vita continuava, e anche i litigi. Sembra che ci sia una maledizione in quella casa: appena ci mettiamo piede cominciano i bisticci e le cattiverie.

La mia compagna decise di iscriversi all’Università, mentre io continuavo col mio lavoro. La situazione a volte trova anche un buon equilibrio, tant’è che stavamo bene tutti assieme: facevamo progetti, ad esempio abbiamo pensato di cambiare città per allontanarci dalle zie, che erano sempre molto invadenti e poco costruttive. Ci sembrava che, invece di agevolare la nostra relazione, cercassero di demolirla, parteggiando per i ragazzi a priori; bastava che loro andassero a lamentarsi che avevano ricevuto una sberla e passavano immediatamente dalla parte delle vittime, con noi come carnefici, senza se e senza ma, senza chiedersi i motivi di questa condotta.

In quei momenti parlavamo anche di matrimonio, ma lei preferiva non sposarsi, dicendo che il matrimonio è solo un timbro in un foglio di carta, che se due si vogliono bene possono rimanere assieme senza matrimoni o vincoli formali. Io non ho insistito, seppure per me il matrimonio sia una cosa molto importante, insita culturalmente: sono stato cresciuto in un matrimonio e in una famiglia sposata, non avrei mai potuto accettare di non sposarmi, e quindi misi la questione da parte temporaneamente.

Finita l’Università e laureatasi, lei decise di fare un viaggio nel suo paese con nostra figlia. Ricordo che la cosa mi dispiacque parecchio: mi sarebbe piaciuto che ci fossimo andati tutti assieme, o almeno avrebbe potuto prendere con sé il più piccolo, che si sarebbe svagato e legato maggiormente. Ricordo anche che questa decisione di andare da sola con la figlia mi lasciò con la sensazione che stesse succedendo qualcosa, che si fosse rotto qualcosa definitivamente. Una volta arrivata là ci sentivamo tutti i giorni con Skype: avevamo anche la possibilità di farci delle video-chiamate e quindi vederci, oltre che parlarci. Durante gli ultimi giorni del loro soggiorno mi disse di aver deciso di lasciare nostra figlia là con la nonna, dove a suo dire era veramente amata. Questa affermazione mi fece arrabbiare moltissimo, anche per il fatto che fino ad allora le decisioni le avevamo prese assieme, e invece improvvisamente aveva preso una decisione da sola: una decisione ingiusta nei confronti di noi tutti, ma in particolare della piccola, che non avrebbe più visto la sua famiglia.

Potete immaginare la discussione e l’incazzatura, penso che raggiunse livelli altissimi. Terminai la telefonata dicendogli di non provare a lasciare la piccola là, perché non l’avrei tollerato. Invece lo fece e tornò dopo qualche giorno da sola, come se nulla fosse successo. A quel punto ero fuori di me: le dissi di fare i bagagli, dissi che non la volevo più in casa, che la odiavo per quello che aveva fatto alla piccola e a noi tutti.

Presi il primo aereo e andrai a riprendere nostra figlia. Non avevo paura di nulla, parlavo la lingua abbastanza bene, avrei smosso il mondo se la sua famiglia non me l’avesse data. Invece la sua famiglia, in particolare sua madre e sua sorella compresero la situazione e mi accolsero in casa come uno della famiglia. Così ripresi la piccola e ritornammo a casa. Il soggiorno fu solo di pochi giorni, passati lì a casa con loro parlando del più e del meno.

Tornati a casa la situazione non era cambiata, l’offesa era troppo grossa e non riuscivo a digerirla. Dissi alla mia compagna che avrei voluto dividermi, che non me la sentivo più di continuare con continui litigi e cattiverie. 

Decidemmo quindi di separarci e di firmare un accordo per nostra figlia. Noi due non eravamo sposati e quindi non ci legava nulla, però verso la piccola avevo degli obblighi dai quali non mi volevo togliere. Anzi: nel ricorso fatto al Tribunale per i Minori ero andato giù pesante, chiedendo che mia figlia venisse ad abitare con me affinché potesse mantenere un legame con i fratelli. Poi però quel ricorso decisi di stracciarlo: avevo già due figli senza la madre, non ne volevo anche la terza. Decidemmo quindi per un accordo che avrebbe affidato ad entrambi la piccola, ma che potesse vivere con la mamma, mentre io avrei continuato a vivere con i miei due.

Oggigiorno praticamente nulla è cambiato, lei studia e vive ancora con la mamma. Invece, io vivo ancora nella stessa casa dalla quale avrei voluto scappare tante volte, con i miei due primi figli. La più grande lavora ed è diventata a sua volta mamma; si è sposata con un ragazzo straniero, che dopo qualche mese è sparito. Mio figlio, disoccupato, è alla continua ricerca di qualcosa o qualcuno che gli dia un po’ di felicità. Penso che per loro la situazione sia molto complicata: praticamente hanno visto tre figure femminili o materne entrare e uscire dalla loro vita, e devono avere in testa molta confusione. 

Parlando di loro faccio spesso l’esempio di un buco nero che inghiotte tutto: sono così, come dei buchi neri, alla ricerca di un po’ di felicità ed equilibrio; ma non riescono mai a trovarla, perché appena si avvicinano a qualcosa o a qualcuno questo viene inghiottito dal buco nero.

Due anni fa sono andato in pensione e faccio delle attività di volontariato che mi riempiono il tempo rimasto vuoto, in casa di riposo e in un centro di disabili, e in più ho la nipotina. Ai miei figli continuo a dire che se rompono me ne vado via, ma ormai è diventato un intercalare di un vecchio brontolone, tanto che neanche mi credono più.

Allo stato civile sono ancora vedovo, e sogno sempre di trovare un giorno l’amore della vita e risposarmi, perché io nel matrimonio ero felice, e perché sono convinto che mia moglie lassù vuole la nostra felicità.

Grazie.