Non abbiate paura di dire “non ce la faccio”

Raccontaci tua storia: quanti anni hai, dove vivi, quanti figli hai, com’è stata la tua relazione.

Ho 46 anni e mi chiamo Rita. Sono professoressa di lettere, sono campana (della provincia di Benevento).

Mi sono trasferita in Veneto circa vent’anni fa per lavoro; per i primi 10 anni ho vissuto in provincia di Treviso e poi, praticamente dieci anni fa, ho conosciuto il padre di mio figlio, in vacanza in Grecia. Lui è della provincia di Verona, e quindi, dopo alterne vicende e vari spostamenti da Treviso a Verona, abbiamo deciso di andare a convivere e di sposarci; così dalla provincia di Treviso mi sono trasferita, dieci anni fa, in provincia di Verona. Siamo stati sposati sette anni, dal 2010 al 2017. Abbiamo avuto un solo bimbo, che ha compiuto cinque anni a marzo. Abbiamo già scelto di fare il divorzio, a novembre 2019: noi ci siamo separati che il bimbo aveva due anni, ed è stata una separazione da parte mia decisamente subita, nel senso che a tutt’oggi mi sento di dire che non c’erano segnali così forti da poter far presagire questo esito, per cui per me è stata una doccia fredda. Il bimbo aveva due anni; eravamo ancora nella fase in cui secondo me si apprende ad essere genitori, e invece in quel momento lui ha voluto la separazione. Poi, dopo, passati i tre anni canonici di separazione, io ho voluto il divorzio, per mettere un punto fermo a questa situazione. 

La separazione per me è stata una doccia fredda: assolutamente non me l’aspettavo, perché il bimbo aveva solo due anni. Presumo che non ci fossero stati segnali premonitori in tal senso, anche se poi, parlandone con lui e con la terapista da cui mi sono fatta seguire i primi tempi, in realtà è venuto fuori che l’evento in sé chiaramente scaturiva anche da un progresso personale. Capita infatti che qualcuno, come è successo per noi, porti nel matrimonio e nel rapporto di coppia una serie di problematiche personali, che, accumulandosi a quelle della vita di coppia, hanno portato all’esito della separazione. 

Dopo che è nato il bambino, chiaramente, la nostra vita di coppia è drasticamente cambiata. Sentendo racconti anche di altre coppie, di altre mamme, mi ero convinta che fosse un iter quasi obbligato: non si dorme di notte, non si esce, la vita intima è pressoché inesistente… Quando il bambino ha compiuto due anni e quindi i ritmi si erano regolarizzati, a me, dal mio punto di vista, sembrava di iniziare a vedere uno spiraglio, e quindi la possibilità di riprendere una vita diversa: è stato a quel punto, quando io ho cominciato a vedere uno spiraglio, che lui invece ha voluto mettere un punto fermo, forse penso proprio per stroncare ogni mio tentativo. Quindi, per me la batosta è stata questa: là dove mi sembrava di iniziare a vedere un’apertura verso una regolarizzazione, verso un ritorno alla normalità, lui invece ha voluto proprio mettere un punto, ha detto “basta, voglio la separazione”. 

Come sono le relazioni del padre con il bambino? Dopo aver deciso di separarsi da te quali erano i suoi atteggiamenti verso il figlio? 

Lui è sempre stato estremamente protettivo nei confronti del figlio, e dal mio punto di vista anche troppo accondiscendente; nel senso che, chiaramente, come sempre accade, a causa dei vissuti suoi personali, dal mio punto di vista non è in grado di dire di no al figlio, e questo capitava già prima della separazione. Per cui, anche oggi, in linea di massima la mia impressione è che qualsiasi cosa il figlio desideri lui si adoperi per dargliela. Sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista affettivo è un padre molto presente: noi abbiamo un affido veramente condiviso, con il bambino che sta la metà del tempo con me e la metà del tempo col padre; anche se per me questo è molto penalizzante, perché il padre è tornato a vivere coi suoi genitori, e questo fa sì che quando mio figlio va a casa del padre in realtà va dai nonni, e trova una strutturazione familiare diversa da quella che c’è a casa mia. Lì trova il padre e i genitori del padre, e adesso una compagna del padre (anche se non vive ancora con loro) mentre quando sta con me lui vive solo con me, perché io sono un genitore solo, e la mia famiglia non è qui in Veneto. Ci sono gli amici e i colleghi di lavoro, però chiaramente non è la stessa cosa. Comunque, i rapporti del padre col figlio sono molto molto buoni, e da questo punto di vista questo per me è anche un po’ penalizzante, perché chiaramente fa sì che il bambino voglia stare molto a casa dei nonni e col padre. Su questa cosa io ho dovuto far sentire più volte la mia voce, per dire che ci sono alcune cose che vanno chiarite.

Tuo figlio come ha vissuto questa esperienza? Ha ancora bisogno di fare dei percorsi, ha un suo equilibrio oppure secondo te c’è ancora qualcosa che lo disturba? 

Io mi sono fatta seguire da una terapista anche per poter poi seguire bene mio figlio in questa fase: la dottoressa che mi ha seguito ha detto che (se così si può dire ovviamente) il fatto che il bimbo fosse molto piccolo ha in qualche modo impedito che nella sua mente si sedimentassero esperienze di vita familiare. Lui ha avuto un momento di crisi molto forte all’inizio; adesso va meglio, anche se i rapporti tra me e il padre non sono assolutamente idilliaci e c’è ancora molta tensione. Le linee educative non sempre sono decise di comune accordo, e questo è difficile, perché comunque ci sono tante cose che magari il bambino da me fa e dal padre non può fare, e viceversa; e lui comincia chiaramente a navigarci, cioè a dire “qui non voglio più starci, voglio andare da papà” quando io gli faccio fare determinate cose. La mia convinzione è questa: quando succedono queste cose, a prescindere dall’età dei figli -questo vale già un po’ per le famiglie diciamo “convenzionali”, a maggior ragione per noi – il percorso non finisce mai: cioè, ci sarà sempre bisogno, entro certi intervalli di tempo, di rivedere le cose. Nel senso che quello che valeva per mio figlio quattro mesi fa non vale più oggi, e non varrà più tra quattro mesi, perché periodicamente poi ci sono delle circostanze in cui si impongono dei chiarimenti. Per esempio: a luglio noi andiamo a trovare i nonni, che sono in Campania, e lì lui avrà bisogno di un ulteriore adattamento. Si troverà in una situazione in cui sta con i nonni della mamma, e non vedrà per un certo periodo di tempo i nonni da parte del papà perché sono altrove; il papà non viene giù con i nonni perché la mamma e papà non vivono insieme e sono separati, e lui lì vedrà bimbi che hanno genitori che sono insieme e altri che sono separati. Intendo dire che il percorso per i figli dei separati non finisce mai: l’assestamento è ciclico, cioè di tanto in tanto si verificano degli episodi in cui c’è bisogno di assestare le cose. Per esempio: alla recita di Natale a scuola lui ha detto “Mi chiamo Nathan, vivo un po’ con papà e un po’ con mamma, come succede anche a Matteo, a Linda…” e ha citato anche altri bambini figli di separati, e invece poi ha aggiunto proprio “Non succede a Marco, Giulia eccetera che hanno genitori sposati”. Quindi, secondo me, l’assestamento è ciclico, e questo, come dire – non per essere ottimista o minimizzare – da un lato fa di lui un bambino che può essere penalizzato perché ha continuamente bisogno di ricostruirsi delle certezze, dei paletti, e lo sottopone a tensione, secondo me;  dall’altro lato, se così si può dire, siccome oggi vive comunque in un contesto in cui le situazioni di questo genere sono tante, non è da solo, e quindi lo condividerà con altri. Io poi adesso lo faccio uscire con me, sia con altre famiglie sia quando esco con i miei amici da single, proprio perché se la mia vita è questa lui deve anche capire, deve accettare che questa è parte della sua vita. I genitori non si scelgono: a lui sono capitati questi, e noi faremo quello che riusciremo a fare insomma. 

Hai dovuto affrontare dei problemi economici dopo la separazione? 

No, sinceramente no, e sono contenta di questo; però è stato per motivi diciamo indipendenti dalla mia volontà, nel senso che io ho un impegno statale a tempo indeterminato, per cui non ho avuto in tal senso problemi. Il padre ha sempre contribuito al mantenimento del figlio, anche se con cifre di gran lunga al di sotto di quelle che avrebbe potuto dare, perché noi abbiamo comunque una disparità di reddito; però io non ho voluto intraprendere in tal senso nessuna battaglia, mi sono accontentata del minimo che prevedeva la legge. Volendo, avrei potuto chiedere di più, anche per mio figlio, però non ho ritenuto opportuno farlo, ecco. Comunque, non ci sono problemi economici, al momento: devo dire la verità, le spese sono abbastanza bene ripartite. Se non succede nulla di particolarmente impegnativo non abbiamo problemi economici, ecco.

E per quanto riguarda te, c’è ancora da lavorare per arrivare un equilibrio o tu pensi di esserci vicina? Qual è la tua reazione personale, quali sono le risorse che hai messo in campo personalmente per reagire a questa situazione?

La mia esperienza subito dopo la separazione è stata questa: ho avuto una fase di totale chiusura verso il mondo esterno, per cui la mia vita era “casa lavoro casa lavoro supermercato”, ecco, per la sopravvivenza. Poi c’è stata la fase opposta, proprio opposta: buttarsi in tutto quello che potesse anche solo apparentemente alleviare il senso di solitudine, dal corso di tango alla scuola di taglio e cucito, alla pizza, al ristorante cinese; era proprio un riempimento, ecco, e quindi secondo me sono passata di colpo da una fase estrema all’altra. Anche questa fase qui chiaramente poi è durata solo un certo periodo di tempo: ha avuto una sua funzione e una sua utilità, dopodiché, però, ad un certo punto, da qualche mese a questa parte il tentativo è un altro: quello di trovare equilibrio tra questi due estremi, quindi tra l’estremo del “sto sempre a casa” all’estremo dall’altra parte “sto sempre fuori”. Anche come vita sociale: trovare un equilibrio tra la posizione “non ne voglio sapere più nulla” e quella “mi butto a capofitto” in tutta una serie di pseudo relazioni, non necessariamente di coppia, anche solamente sociali. La mia esperienza è questa: che sia comunque quasi un passaggio obbligato attraversare sia l’una che l’altra fase, perché devi provare tutto: secondo me devi lasciarti andare sia prima alla solitudine, sia poi al dolore, poi alla reazione esasperata, per poi finalmente planare ad un equilibrio. Tra una cosa e l’altra, per quanto mi riguarda, di fondo rimane comunque un po’ la sensazione dell’abbandono – nel mio caso specifico ovviamente, anche se poi le dinamiche sono diverse da coppia a coppia. Non è solo la separazione il problema, è anche la modalità con cui viene affrontata, come viene gestita: se ci si arriva dopo un percorso, per cui le due persone quasi consensualmente decidono di separarsi perché capiscono che non stanno più bene insieme, oppure se invece ti arriva tra capo e collo come è capitato a me; insomma, è chiaro che è un po’ diversa la cosa. Le risorse che secondo me la persona può mettere in atto nell’immediato, paradossalmente sono proprio quelle di non fare nulla; cioè, nell’immediato secondo me è meglio non fare nulla, lasciarsi attraversare completamente dalla sensazione di dolore e di vuoto, e poi magari, parlarne con altri: per me è stato molto utile parlarne con la mia psicologa, con qualche amica, con persone che l’hanno vissuta questa cosa, e quindi, in un certo qual modo, se proprio non condividono, almeno possono capire alcuni tuoi stati d’animo. Dopo essere passata da un eccesso all’altro, poi il problema sarà proprio quello di trovare un equilibrio. Deve passare qualche anno secondo me: l’equilibrio allora lo raggiungi quando impari a stare bene da solo con te stesso, e poi, quando hai imparato questo, secondo me qualsiasi cosa si presenta la vivi e la gestisci diversamente. Mentre per quanto riguarda il rapporto di equilibrio con il padre di mio figlio, diciamo che allo stato attuale riusciamo a conversare in maniera pseudo civile per quanto riguarda la gestione del bambino. C’è ancora da parte mia attenzione per il modo con cui la cosa è avvenuta, e la sensazione che a volte mi stupisco guardandolo, e allora mi dico: l’avevo scelto come compagno di vita, come padre di mio figlio; sarebbe dovuto andare in un certo modo, avevo fatto un certo investimento, anche socialmente importante perché avevo cambiato provincia, cambiato zona, perso gli amici; e invece poi capita di ritrovarsi con una persona accanto e dire: “come potuto accadere?” La sindrome dell’abbandono rimane, nel senso che quando subisci una cosa così forte ti rimane dentro una sensazione di vuoto tremenda, e quando poi intraprendi una nuova amicizia, relazione, frequentazione, quello che vuoi, temi sempre che da un momento all’altro la nuova persona possa abbandonarti così, da un giorno all’altro. Io questa cosa la sento ancora oggi molto. Penso che ci vorrà del tempo.

Comunque sì, sì se devo essere sincera – e non penso di essere retorica – per me è stata un’esperienza devastante da un punto di vista psicologico, dalla quale non sono neanche sicura di essermi ripresa del tutto: nel senso che le cose chiaramente vanno avanti perché devono andare avanti, ma pensare di poter dire “sì, l’ho superata del tutto” non credo, sinceramente non credo.

C’è qualche consiglio particolare che vorresti dare, oppure un’esperienza che vorresti portare a chi leggerà la tua storia? 

Quello che mi sento di dire è questo: immediatamente dopo una separazione, un evento così, non bisogna decidere, non bisogna fare nulla. Cerco di spiegarmi meglio: non bisogna avere la pretesa di prendere subito delle decisioni, qualunque esse siano. Bisogna semplicemente aspettare un po’ di tempo, e avere “tra virgolette” l’umiltà di rivolgersi a qualcuno; non parlo necessariamente di uno psicologo – nel mio caso è stato utile quello – ma può essere un amico, un parente, una persona alla quale chiedere aiuto, anche proprio per la gestione delle cose pratiche, perché magari sei preso da talmente tanta sofferenza, da tanto vuoto che ti possono sfuggire delle cose. Quindi, veramente non bisogna fare nulla: non fare finta che il dolore passi velocemente, no. Mettersi proprio nello stato d’animo di dire “mi lascio attraversare per un periodo di tempo da questa fase di dolore, e poi piano piano ne verrò fuori”; avere l’umiltà di chiedere aiuto, questo sì, mi sento di dirlo. E provare, quantomeno – lo so che può sembrare banale – a godere veramente, se così si può dire, delle piccole cose, che possono essere la chiacchierata con un amico, il gelato con il figlio… Che non significa, per carità, sottovalutare quello che è successo, però bisogna aggrapparsi comunque a qualcosa, ecco: non avere paura di mostrarsi deboli, non avere paura di dire “non ce la faccio”, perché prendere coscienza della propria debolezza in quel momento è il primo passo, secondo me.

Aggiungerei anche questo, ecco, forse dire immediatamente alle persone che si separano: “OK, non siamo più quella famiglia in cui abbiamo creduto e in cui ci sono stati trasmessi valori”, soprattutto nella mia generazione, educata in un certo modo. Possiamo essere altro, non so se meglio o peggio: altro; come riusciremo ad esserlo, questo è.